La prima volta che mi sono imbattuto in quello che poi sarebbe diventato la Rete di Trieste è stato proprio a Trieste, quando sono andato come parte della delegazione di The Economy of Francesco alla 50ª Settimana Sociale dei Cattolici in Italia. Non era in programma: un incontro “laterale”, nell’ora di pranzo, in una sala del consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia. Un gruppo eterogeneo di amministratori, ex amministratori, persone impegnate nei territori. Nessun palco, nessuna bandiera: solo sedie in cerchio e un foglio di appunti.

Da lì è nato un documento e, soprattutto, un filo che non si è più interrotto. Quel filo è diventato una chat che oggi raccoglie oltre mille persone da tutta Italia. Dentro ci sono idee, dubbi, proposte, qualche litigio, molte domande. È un luogo dove il “noi” conta più del “chi”.
Ho seguito il percorso della Rete nei mesi successivi, fino ad arrivare oggi a far parte del coordinamento regionale in Basilicata, insieme a Fausto Santangelo e Gennaro Curcio. Non è un partito, non è un movimento tradizionale: è uno spazio dove provare a mettere insieme energie sopite, e vedere se, messe a sistema, possono diventare una forza.
Il punto di partenza è semplice: guardare la politica dal basso, dal punto di vista dei territori, senza la lente deformante dei partiti o dei talk show. Significa parlare di giovani, welfare, transizione ecologica, aree interne, partecipazione democratica — ma farlo con l’idea che ogni soluzione deve avere radici concrete, non slogan.
Il bello, per me, è stato scoprire che in questa rete convivono differenze politiche e culturali senza che diventino ostacolo. A Trieste, come a Potenza, ho visto persone che normalmente si troverebbero su fronti opposti sedersi allo stesso tavolo. Non per “fare pace” in astratto, ma per lavorare su problemi reali: la casa che manca, il centro storico che si svuota, il giovane che parte, la piazza che non è più un luogo di incontro.
La Rete non promette soluzioni rapide. È un lavoro di pazienza, ascolto e tessitura. A volte lento, a volte disordinato, ma sempre con l’idea che la politica possa tornare a essere una pratica di comunità.
